Hains - Rotella, artypò decollages saffa, galleria Il Ponte, Firenze_1
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HAINS – ROTELLA sfoglia il Giornale
artypò decollages saffa
a cura di MAURO PANZERA
1 dicembre 2012 – 15 marzo 2013

Pierre Restany, nel 1960 a Milano, nella Galleria Apollinaire di Guido Le Noci, dà vita al Noveau Réalisme, all’interno del quale si delinea il gruppo dei cosiddetti affichistes: François Dufrêne (Parigi, 1930-1982), Raymond Hains (Saint Brieuc, 1926 – Parigi, 2005), Mimmo Rotella (Catanzaro, 1918 – Milano, 2006), Jacques Villeglé (Quimper, 1926). Nel 1962 la stessa Galleria Apollinaire dedica loro una mostra collettiva e nel 1963 sempre a Milano, Arturo Schwarz organizza la mostra L’affiche lacerato, elemento base della realtà urbana, sempre presentata da Pierre Restany. Mimmo Rotella ha sempre avuto un percorso autonomo in rapporto ai francesi anche se i loro “furti”, cioè gli strappi dei manifesti dai muri delle città di Roma e Parigi, in parte collimano.

Hains  e Rotella sono i due artisti che maggiormente hanno sviluppato il proprio lavoro anche in ambiti diversi rispetto al decollage, il primo preferendo un accostamento più intellettuale, astratto e con un carattere spesso fortemente politico, il secondo con un maggior approccio estetico, prediligendo le immagini pubblicitarie del cinema.
La mostra allestita a Il Ponte contempla sedici lavori dei due artisti che raccoglie un nucleo delle loro opere dagli anni Cinquanta alla fine degli anni Ottanta, quasi a ricostituirne la temperie.  Nelle loro affinità i due artisti si presentano nettamente distinti. Di Rotella vengono presentati i retro d’affiches, in cui, nel clima informale di quegli anni, riaffiorano le tracce degli intonaci romani; i manifesti cinematografici, dove al di là degli strappi resta il fascino di un’epoca; gli artypò “…quadri fatti con prove di stampa …”, le coperture e le sovrapitture, che danno un’immagine complessiva della sua vivacità espressiva.
Di Hains, curioso esploratore che si interessa alla storia, alla religione, alla musica, al teatro e al cinema, vengono invece presentati tra le altre opere un decollage di taglio politico Nixon Hitler, due legati a Mirò e Dubuffet, e i suoi fiammiferi giganti Saffa, che egli concepisce per la prima volta nel ’64, all’inizio del suo periodo italiano, per l’esposizione alla galleria veneziana del Leone.

Testo di Mauro Panzera
Gli anni Cinquanta del XX secolo hanno visto fiorire, in Europa e negli Stati Uniti, una notevole attività, in termini di pensiero e di poetiche: una vera e propria riconsiderazione dell’universo teorico relativo al pensiero estetico. Nessuna tendenza dominante è emersa con forza nel dibattito, molto sperimentalismo azzardato – a volte sembra di far ritorno all’universo Dada e si pensi al Lettrismo – ma è da qui che si prepara l’humus che ha permesso la fioritura potente dell’arte negli anni Sessanta. Gli anni Cinquanta sono il nido, in Europa, per la nascita e crescita della società delle immagini, dei simulacri e avrà quale formulazione artistico/politica la teorizzazione di Guy Debord con la categoria della Società dello spettacolo.
La prima conseguenza di un tale moto è la messa in crisi del sistema dell’arte, tramite lo strumento delle contaminazioni e artisticamente parlando, annullando la nozione di “materiale per l’arte”.
Pur se le mie scelte metodologiche vorrebbero  privilegiare, ad una sociologia, una storia interna all’arte, qui la narrazione deve fare i conti con uno dei fatti più sconvolgenti del tempo, la II guerra mondiale, la sua estensione territoriale, la sua determinazione a coinvolgere le popolazioni disarmate. Il risultato fu la distruzione, che condizionò l’immediato futuro. Ma fu anche la costruzione di un nuovo racconto mitologico, affidato ad immagini e liberato grazie ad una novità tecnologica, la televisione. Inutile rinviare alle ricerche di Roland Barthes, all’imporsi di un concetto di design, allo sforzo che l’umanità fa di adeguarsi a modelli di vita nuovi.
Ma nel nuovo alberga sempre qualcosa di vecchio; per il XX  secolo la parola rivoluzionaria fu “il cinematografo”, il vero crogiuolo dei miti, che genera una catena di prodotti relativi all’informazione e alla pubblicità.
In primo luogo nasce il manifesto cinematografico, proviene dall’arte dell’illustrazione e vede al lavoro molti maestri, soprattutto in Italia (si veda il lavoro di Carlantonio Longi). Nelle desolate città del dopoguerra, uniformemente di colore grigio polvere, la nota di colore, l’universo dell’umanità passava attraverso queste illustrazioni, capaci di pubblicizzare la star del momento ma anche di richiamare in sintesi estrema la trama dell’opera. Questi manifesti sono narrazioni pittoriche.
In secondo luogo gli artisti sentono il dovere morale di sottoporre a critica la società loro contemporanea.
I fermenti degli anni ’50 producono un fenomeno noto come neoavanguardia e tra le prime situazioni da indagare c’è il Nuovo Realismo, movimento europeo, franco-italiano, che intende contrapporsi alle voci che giungono dagli stati Uniti e si ricopriranno della sigla Pop Art.
Siamo tra il 1959 e il 1960 e un folto gruppo di artisti, soprattutto francesi, si aggrega, si avvicina reciprocamente e spontaneamente fino alla decisione di stendere una Dichiarazione di poetica comune. Sono Arman, Cesar, Cristo, Deschamps, Dufrene, Hains, Yves Klein, Raysse, Mimmo Rotella, Niki de Saint-Phalle, Spoerri, Tinguely, Villeglé e Pierre Restany, organizzatore e teorico del gruppo. Il movimento non si diede una  struttura concettuale, pur se firmò un manifesto in cui reale e realismo si declinava in questi termini: Nouveaux Réalistes=Nuovi approcci percettivi al reale. Di qui si intende bene quanto contava il pensiero di Yves Klein, accanto alle teorizzazioni di Restany.  Quando si introducono termini quali reale realismo, diventa chiaro che conta più la difesa di una libertà individuale di produrre che non un’obbedienza ad una linea. La neoavanguardia scoperchia tutte le pentole a disposizione all’immediato secondo dopoguerra.
Non parleremo dello specifico sviluppo del gruppo; ci interessa ragionare intorno a due artisti, Hains e Rotella, che aderiranno al gruppo, ma il loro lavoro iniziale, il loro tempo della sperimentazione, risale agli albori degli anni 50. Del resto il difficile racconto dell’arte contemporanea nasce proprio dalla sfasatura tra il cominciamento e la trovata identità d’immagine, la riconoscibilità di un artista attraverso l’analisi delle sue opere.
Sono due affichistes nella reciproca insaputa, uno del lavoro dell’altro. Ma il manifesto illustrazione non è, in quanto oggetto prelevato, al modo di un ready made per entrambi, non resta sempre non manipolato, a volte viene profondamente interpretato, essendo egli stesso un’invenzione di un autore.
Va tenuto presente che da un lato Rotella nasce pittore e pittore astratto e solo dopo una crisi creativa che lo conduce per un anno negli Stati Uniti si avvicina alla fotografia. D’altra parte Hains è già in collegamento con i gruppi che lavorano intorno alla poesia visiva e al cinema documentario. E quando si ritroveranno a lavorare con il medesimo materiale, i risultati saranno reciprocamente molto lontani; giacchè Hains, più sensibile al rapporto opera d’arte/realtà, avrà già prodotto La Palizzata mentre Rotella entrerà di petto nell’universo italiano di Cinecittà.
Con Rotella avremo un’ampia fenomenologia circa l’uso e il trattamento di un manifesto strappato; dall’operazione dello strappo alla ricomposizione di una immagine che abbia senso, da pittore nato si tratta pur sempre di proporre un’immagine che avesse una sua identità forte al proprio interno. Per questa via abbiamo la costruzione di una mitologia del divismo, del sogno impossibile e della bellezza irraggiungibile. Rotella non trasforma queste immagini in luoghi critici.
Diverso è l’atteggiamento di Haines, critico verso la società del suo tempo, che cerca di superare la distanza tra galleria che ospita l’opera d’arte e l’esterno, il sociale: da questo punto di vista l’opera La Palizzata diviene per l’artista un manifesto delle sue intenzioni artistiche.
Mauro Panzera, Vobarno, 23 novembre 2012